Sono passate due settimane dall’incontro con Francesco Florenzi, ospite presso la sede del GFP venerdì 10 Aprile, e le sue foto sono ancora tutte ben impresse nella mente: sagome di uomini persi in lunghi corridoi, chi va su e giù con un carrello e chi preferisce stare per terra in un angolo, nascosto, mimetizzato con il niente; uomini appoggiati al muro, uno di fronte all’altro ma distanti, piegati a fissare il pavimento; occhi spalancati che attraversano un vetro su cui è riflesso un cortile desolato; e poi un cane che ringhia inferocito chiuso in una gabbia e che smuove ancor più il pensiero, forse perché mostra in modo così evidente i risultati dell’abbandono, del maltrattamento, della violenza, o forse perché così umano, così simile al ritratto di chi ha subito un pari trattamento e urla la propria solitudine; una lunga ombra, quasi fosse il prolungamento della sagoma che la proietta alla luce della finestra di una stanza buia, uno sguardo perso a guardare farfalle che non esistono e infine, in questi posti nati per curare i più bisognosi, la solitudine di una sedia lungo un muro esterno, dove neanche i gatti trovano riposo.
Sono solo alcune delle tante foto portate da Florenzi, scattate alcuni anni fa in diversi centri di cura delle malattie mentali in Liguria, Toscana e Sicilia.
Tante foto sono mosse o sfuocate con il doppio effetto di rendere le persone ritratte come se fossero fantasmi e di creare in chi le guarda un senso di indeterminatezza e di confusione ma allo stesso tempo di una maggiore immedesimazione. Tutte in bianco e nero, scelta obbligatoria per rappresentare un posto dove non esistono colori né sfumature e che identifica il carattere dello stesso Florenzi, fotografo che infatti scatta solo in bianco e nero.
Durante la serata non c’è stata tanto una discussione sulla tecnica usata; le domande sono state tutte rivolte a capire la spinta che ha portato ad indagare una realtà così difficile e i sentimenti provati e le impressioni avute da Florenzi nel visitare questi posti. È nato il tentativo di dare una interpretazione alla sequenza di foto che vede, in una prima parte, degli scatti rivolti a indagare attraverso gli occhi della normalità il tema della pazzia e, in una seconda parte, una introspezione dell’autore alla ricerca di sé. È questa solo una delle tante interpretazioni e giustamente Florenzi, non svelando del tutto la propria visione, ha lasciato liberi ognuno di noi di dare il proprio significato alla serie di foto.
Le foto viste hanno sicuramente portato tutti a riflettere su quanto sia stato folle tollerare così a lungo la separazione tra “sani” e “pazzi” con la chiusura di questi ultimi nei manicomi. In una società dove cambiando i nomi si spera di cambiare le cose, dove si rifanno le facciate e non le fondamenta, si è forse pensato di abolire i manicomi chiamandoli “ospedali psichiatrici”. Non so quanto l’abolizione dei manicomi con la tanto discussa legge Basaglia del 1978 abbia anche abolito certe pratiche “curative” inaccettabili. Inoltre, quali i confini tra follia e normalità? Non è forse vero che “siamo tutti costretti, per rendere sopportabile la realtà, a coltivare in noi qualche piccola pazzia” (Marcel Proust)? E con quali parametri è possibile misurare la follia umana?
Il tema è immenso e le foto di Florenzi , così forti e che difficilmente si dimenticano, non hanno solo suscitato una emozione, stimolato un pensiero o portato tutti, magari solo per un attimo, a riflettere su un mondo ancora da esplorare, la nostra mente, ma hanno anche invogliato a conoscere ulteriormente l’autore e a vedere altri suoi lavori.
D’accordo con il nostro ospite sul fatto che le foto chiuse in un cassetto perdono di senso, ci auguriamo che questa serie di foto possa superare gli ostacoli burocratici e l’indifferenza dei molti per trovare più ampi spazi e un numero sempre maggiore di spettatori.
Ringraziamo Francesco Florenzi per il tempo dedicato al GFP e aspettiamo di vedere la serie di foto su “Auschwitz”…ma soprattutto sue foto future!
Lina Caprio